LA MIA STORIA VICINO AL DSA

Atti del convegno organizzato dal servizio Melacavo nel 2014

Il convegno “LA MIA STORIA VICINO AL DSA” nasce come proposta di formazione all' interno del progetto Melacavo, un servizio di supporto per gli alunni con diagnosi di DSA e per le loro famiglie.
Gli enti coinvolti nel progetto sono stati lo Studio di Psicologia Caracol, l' Associazione Genitori di Ranica, il Comitato Genitori di Torre Boldone, l' Istituto Comprensivo di Torre Boldone ed il Comune di Ranica. Il progetto usufruisce poi del supporto formale e tecnico dell' Associazione Giochincorso, del Comune di Torre Boldone e dell' Istituto Comprensivo di Ranica.
L' organizzazione delle due giornate di formazione e condivisione intorno alla questione DSA, ha inseguito tre finalità generali.
Finalità 1: La costruzione di un rituale di passaggio per i gruppi di persone che sono attori del progetto Melacavo.
Finalità 2: La valorizzazione delle esperienze degli utenti del progetto Melacavo (alunni, famiglie e docenti).
Finalità 3: L' organizzazione di setting espressivi volti al decentramento e al confronto tra le soggettività che ruotano intorno alla questione DSA.

Il convegno come grande rituale di passaggio
Il rituale rappresenta, dal punto di vista sociologico, una delle componenti fondamentali della vita di un gruppo di persone. Attraverso azioni e drammatizzazioni simboliche i componenti del gruppo rinnovano le idee che hanno giustificato l' appartenenza e supportato lo stare insieme nel gruppo. Il rituale rappresenta quindi per il gruppo un' importante metacomunicazione sui rapporti di interdipendenza positiva che esistono tra le persone che ne fanno parte. Attraverso le azioni sacre del rituale quindi le persone rinnovano le motivazioni che le hanno portate ad unirsi in nome di una finalità condivisa.
Riprendendo la definizione di Van der Hart (1983) il rituale viene descritto in questi termini:
I rituali sono atti simbolici che devono essere compiuti in un certo modo in un certo ordine e possono essere o meno accompagnati da formule verbali.Accanto agli aspetti formali, si può distinguere un aspetto emotivo dei rituali.Il rituale è compiuto con grande coinvolgimento e partecipazione emotiva. Se questo non avviene, ci troviamo di fronte a rituali vuoti. Certi rituali sono compiuti ripetutamente durante tutta la vita di interessati; altri, al contrario, sono compiuti una sola volta (ma possono essere di nuovo compiuti da altre persone).
Già Van Gennep nel 1909 aveva distinto i rituali di continuità dai rituali di discontinuità. I primi nel continuo rinnovarsi dell' appartenenza al gruppo da parte dell' individuo. I secondi invece segnano una discontinuità temporale, l'ingresso dell' individuo in una nuova fase di vita e il riconoscimento di questo passaggio da parte del gruppo-comunità.
Il progetto Melacavo nei primi tre anni di funzionamento ha rappresentato per molte persone (in particolare per i genitori) un gruppo dove poter confrontarsi intorno a ciò che condividono, ovvero l' appartenenza alla categoria di persone che hanno ricevuto una diagnosi di DSA. Del resto il progetto Melacavo, fin dal primo anno di edizione, si è strutturato sia come proposta di spazio compiti per ragazzi con diagnosi, che come centro di supporto alla famiglia, tramite numerose riunioni di gruppo ed incontri individuali.
I genitori che hanno frequentato il gruppo hanno cambiato la modalità di rapportarsi e rappresentarsi il DSA, vissuto inizialmente come problema generatore di ansia che deriva dal trovarsi in una situazione problematica senza aver idea di quale strada percorrere per uscirne. Attraverso il confronto con i tecnici e soprattutto attraverso la diffusione di forme di auto-mutuo aiuto, ormai i genitori “storici” hanno iniziato un processo di ridefinizione del proprio immaginario intorno al DSA: una questione che resta problematica ma che hanno imparato a gestire.
Anche gli alunni che in questi anni abbiamo seguito hanno cambiato il proprio modo di osservare l' essere diagnosticati con DSA: se prima la diagnosi produceva sostanzialmente un sentimento di disistima, di incapacità sul piano scolastico, ora, attraverso lo sviluppo della metacognizione, attraverso il supporto costante e la mediazione offerta dalle figure adulte, non si osservano più come “non in grado di fare”, ma anzi si sono ritrovati ad essere studenti migliori, in grado di utilizzare le tecnologie informatiche con scioltezza e soprattutto in grado di fare i conti con il proprio stile di apprendimento.
Era quindi importante riconoscere a queste persone l'evoluzione di cui sono stati protagonisti; era importante celebrare ed essere riconosciuti dagli altri come persone che effettivamente se la sono cavata.
Nel convegno non abbiamo assistito a grandi atti simbolici e mistico-celebrativi, ma proprio l'organizzare insieme l'iniziativa, l'esporsi parlando di fronte ad un pubblico sono elementi che possono assumere valore simbolico: ci dicono cioè che queste persone ce l' hanno fatta, che non sono più le persone fragili ed insicure che abbiamo incontrato qualche anno fa.
Inoltre ciò che ci convince sul fatto che il convegno sia effettivamente stato un grande rituale è stata proprio la grande partecipazione emotiva con cui è stato vissuto sia dai relatori che dal pubblico: quindi non un rituale vuoto, non una partecipazione fredda e disinteressata.
Per cogliere il valore ritualistico che ha assunto il convegno si possono prendere in esame questi due estratti: l'intervento effettuato dagli alunni e alcuni interventi svolti dai genitori.

Un convegno con tratti paradossali.
Quando decidiamo di partecipare ad un convegno attiviamo l'idea che in qualche modo riceveremo informazioni su cui abbiamo un interesse, da parte di persone che vediamo e, solitamente, si definiscono esperte.
Nel titolo del convegno “La mia storia vicino al DSA” è contenuto quindi un piccolo paradosso: pur essendo un convegno non ascolto esperti, ma esperienti, cioè non persone che raccontano una verità di cui loro sono padrone, ma persone che raccontano la propria esperienza ovvero la propria storia.
La riflessione sulla differenza tra esperto ed esperiente è stata oggetto di qualche riflessione con lo psicoterapeuta De Bustis, in relazione alle modalità con cui ci presentiamo a pazienti. L'idea che alla fine del discorso abbiamo co-costruito è connessa all'importanza di porsi non come esperti ma come esperienti.
Se il dialogo è tra un esperto e un “non esperto”, i due dialoganti condividono una premessa legata al fatto che il non esperto debba assolutamente memorizzare e ascoltare le istruzioni dell' esperto. Questo pone l' esperto in una posizione di potere: tutto quello che dice o rendiconta viene vissuto dal “non esperto” come comando.
Tuttavia abbiamo notato più volte che il “fai come dico io” (approccio istruttivo) non ottiene la finalità su cui si basa l'interazione, ovvero il cambiamento della persona che cerca aiuto. E questo per almeno due ragioni connesse alla punteggiatura esperto (in posizione di potere) e non esperto (in posizione di sudditanza).
In primis, in questo tipo di interazione, l'esperto tende a non ascoltare l'altro, ma cerca soprattutto di guardare dentro la propria “cassetta degli attrezzi” alla ricerca della frase utile per aiutare. Mancando di attenzione alla relazione, al racconto dell' altro, si rischia di offrire consigli ed istruzioni completamente decontestualizzate dai vissuti del sofferente. Quando gli organismi geneticamente modificati sono stati introdotti sul mercato, tutti pensavano che finalmente avremmo dato risposta ad una generale domanda sofferente: “ho fame, mi dai da mangiare?”. E' stata data una risposta semplice e lineare: “con questo seme puoi produrre piante più grosse”. Solo dopo abbiamo osservato le numerose conseguenze nefaste legate all' introduzione di questo “aiuto”: forse era il caso di ascoltare maggiormente chi lamentava la fame.
In secondo luogo l' esperienza del ricevere un consiglio può condurre il consigliato a definire un' amara constatazione: se ho dovuto farmi aiutare significa che non sono stato in grado di aiutarmi da solo.
Nella dinamica di relazione esperiente- esperiente invece quello che possiamo vedere come consiglio orientante ad un cambiamento, non sta nella testa dell' uno o dell' altro attore della conversazione, ma sta nell' interazione a-finalistica.
La verità quindi non assume più un valore assoluto, ma relativo e soggettivo. Tale verità risulta tuttavia molto utile a chi in realtà ha effettivamente bisogno di aiuto. Come se nella mente del sofferente si creasse la consapevolezza rispetto all' essere in grado di tirarsi fuori dal problema in autonomia.
Queste considerazioni possono essere messe in connessione al successo che le forme di terapia basate sull' auto-mutuo aiuto stanno avendo nell' aiutare le persone in situazione di travaglio psicologico.
Nelle sessioni del convegno i relatori individuati non erano massimi esperti della questione DSA, anzi erano persone esperienti a seconda del proprio ruolo: chi come tecnico, chi come genitore, chi come docente e chi come alunno. Così le sessioni non hanno assunto carattere di lezione, ma di condivisione della propria esperienza.
Riprendendo l' applicazione di Bateson sulle teorie dei principi logici di Russel, osserviamo le interazioni in un processo comunicativo come governate dai livelli logici delle asserzioni. L' applicazione delle idee sui livelli logici ha permesso a Bateson di definire sia i modelli sul doppio vincolo (messaggi che diventano ambigui poiché contengono due o più elementi appartenenti a livelli logici tra loro in contrasto), sia e idee sul deutero-apprendimento come meccanismo che permette alle persone di modificare il sistema di significato con cui possono rappresentarsi la propria relazione con il mondo.
Ora passare dal setting della lezione (esperto-non esperto) a quello della condivisione (esperiente-esperiente) permette di modificare uno dei livelli logici con cui le persone si rappresentano ciò che, in questo caso, si rappresentano come problema.
Constatando che altre persone (con cui si condivide il problema DSA) sono riuscite ad agire un cambiamento, il problema DSA non viene più messo nella categoria logica dei “problemi insormontabili”, ma diventa parte della categoria logica dei “problemi sormontabili”.
Gli uditori, che hanno ascoltato relatori simili a loro, escono semplicemente con una convinzione nuova: “se ce l'ha fatta lui, posso farcela anch'io”.
Depatologizzare il DSA attraverso prassi di decentramento.
Attraverso il processo diagnostico, le difficoltà che incontrano i bambini nell' apprendimento scolastico possono essere inserite all' interno della macro categoria di quei problemi che definiamo connessi al disturbo specifico dell' apprendimento. Il DSA prima ancora di essere la descrizione di una storia di apprendimento è un' etichetta che simboleggia la presenza di una patologia. Da un lato il processo diagnostico crea ed individua una serie di comportamenti all' interno di una categoria nota, con il fine di attivare forme di aiuto secondo lo schema classico del pensiero scientifico: prima definisco il problema e poi attivo il conseguente piano di aiuto. Nelle nostre società il processo di “etichettamento” permette di creare una discontinuità nell' osservazione della realtà, che giustifica trattamenti differenziati.
Per questa ragione la diagnosi è utile ed il riconoscimento del problema è stato legittimato in Italia tramite l' introduzione della legge 170 del 2010 che regola le modalità di presa in carico del DSA all' interno della scuola.
Tuttavia emergono alcune ragioni per cui osserviamo la diagnosi come “arma a doppio taglio”: da un lato permette la presa in carico, dall' altro però sancisce l' ingresso della persona all' interno di un contesto caratterizzato da vincoli e difficoltà esperite sul piano emotivo affettivo e relazionale.
Partiamo dal punto di vista della scuola e dei docenti. La legge 170 ha sancito per i docenti l' obbligo a lavorare di più: l' obbligo a formarsi in primis, ma soprattutto l' obbligo a definire e attuare didattiche differenziate. Tutto questo surplus lavorativo viene richiesto oltretutto senza adeguare il compenso al lavoro in più. Forse questo spiega perchè molti docenti vivono con insofferenza la presenza di alunni con DSA nelle classi: DSA uguale problema.
Anche le famiglie, intorno alla questione, hanno il loro carico di fatica e sofferenza. Ascoltando i genitori intervenuti, alcuni si sono detti sollevati dal ricevere una diagnosi, altri invece descrivono simbolicamente l' arrivo della diagnosi, come l'inizio di un calvario, di una strada in salita. Il vincolo emotivo per loro è rappresentato soprattutto da emozioni di paura, senso di colpa e tristezza. Appare normale essere tristi e preoccupati se tuo figlio deve fare una visita dallo psichiatra in ospedale. Ci si sente poi in colpa, sia perchè qualche genitore forse ha sentito dire che il DSA è ereditario (cosa assolutamente non dimostrata), sia perchè si ha la sensazione di aver trattato male il proprio figlio, dandogli spesso dello scansafatiche, o avendolo punito in seguito all' ennesimo brutto voto. Il genitore di fronte a computer, leggi ad hoc, procedure di diagnosi, percorsi individualizzati tende a sentirsi non adeguato, non in grado di supportare il figlio per il futuro, accusando sensazioni di ansia e sconforto.
Ben pochi alunni son felici di ricevere una diagnosi di DSA, per lo meno nei primi tempi. Essere DSA significa avere maggior aiuto sul piano scolastico, ma anche dover affrontare il giudizio dei pari, che ti prendono in giro come fossi un minus habens o che svalutano i tuoi risultati scolastici provenienti da verifiche ai loro occhi facilitate. Un genitore ha descritto il DSA come uno zainetto, un fardello che il figlio dovrà sempre sopportare sulle spalle. Uno zaino che talvolta diventa più pesante, ma che, con un lavoro attento e continuativo, può diventare leggero e meno vincolante. Come se i DSA fossero quelli con la gobba sulle spalle, rappresentata quasi simbolicamente dall' inseparabile presenza della borsetta del computer portatile.
Nell' opera teatrale sul DSA quindi ci sono per lo più personaggi che giocano un ruolo di arrabbiati, ansiosi, depressi, ma ci sono anche personaggi felici: i dottori. Dottori che vedono incrementare il proprio fatturato, poiché la propria officina ha una nuova tipologia di comande. Dottori che continuano ad alimentare lo status di problematicità intorno al DSA, poiché se non lo fosse, lavorerebbero di meno.
Lo scenario che si delinea è quindi caratterizzato dalla presenza di un panorama tetro, con nuvoloni gonfi di conflitto e di energia negativa. In questo contesto si sviluppano così sofisticati meccanismi di difesa utili a tollerare l' insuccesso e l'inadeguatezza. Il principale meccanismo di difesa osservato è connesso allo spostamento del locus of control nel processo di spiegazione e attribuzione dell'insuccesso (Rotter 1954) dall' interno all' esterno. Quando viviamo un disagio ci sentiamo meglio se lo osserviamo come provocato da fattori esterni a noi. Se il problema viene da fuori diventa più tollerabile poiché non siamo noi a causarlo.
Così nel grande circo DSA è facile incontrare scene caratterizzate dal “J' accuse”. Genitori che accusano insegnanti di non lavorare adeguatamente con i figli. Insegnanti che accusano genitori di essere troppo apprensivi e poco fiduciosi nel loro operato. Tecnici che accusano insegnanti per le stesse ragioni dei genitori, o che accusano genitori per stili o troppo protettivi o troppo conflittuali. Compagni di classe che accusano docenti per i trattamenti differenti e semplificanti riservati ai DSA. Alunni con diagnosi che accusano i docenti di non essere giusti. Alunni che accusano i genitori perchè troppo controllanti.
Tuttavia queste strategie se da un lato possono consolare il singolo, d'altro canto rappresentano forse il principale problema connesso al mondo DSA: la diffusione di una cultura del sospetto, del non-fidarsi, la generazione di un vincolo di natura emotiva e relazionale.
Seguendo il pensiero di Calzi (1999) riguardante l' introduzione della didattica interculturale, si osserva il concetto di decentramento come atto di valore antropologico nel cammino di uscita dall' egocentrismo e dall' etnocentrismo. Decentrarsi significa uscire dal proprio punto di vista, imparando a considerare il proprio modo di pensare non come unico possibile e legittimo, ma come uno fra molti. Il decentramento si configura quindi come tirocinio di democrazia nell' imparare la parzialità della propria verità, mai totalizzante e definitiva.
Tali idee sulla chiusura e sul decentramento ci hanno portato ad organizzare un convegno con forma di “agora”: una piazza democratica dove ascoltare i punti di vista dell' altro considerato non nemico, ma certamente avversario.
Per far questo abbiamo quindi lavorato sulla scenografia, o meglio sul setting in cui si è inserita la proposta. Le sessioni sono state impostate per gruppo di appartenenza (genitori, docenti, tecnici e alunni), come se sul palco ci fossero gli avversari. Questo ha permesso alle soggettività di provare a mettersi nei panni dell' altro non solo sul piano razionale, ma soprattutto sul piano emotivo.
Altro elemento strategico nella costruzione del setting, è stata la proposta di intervallare le sessioni con momenti di buffet, proponendo agli attori di dialogare in contesti esperienziali diversi da quelli a cui erano abituati: conoscersi oltre le proprie appartenenze alle categorie di professore, tecnico, alunno e genitore. Conoscersi come persone che si trovano a condividere il pasto.

I contenuti emersi
La struttura con cui si sono susseguiti gli interventi ha previsto di porre ai relatori delle domande su cui confrontarsi:
Aldilà delle definizioni scientifiche che cosa è per te il DSA?
Puoi parlarci di come lavori con gli alunni con diagnosi di DSA? Piu' in generale cosa significa "includere" le persone con una diagnosi neuropsichiatrica?
Puoi raccontarci le emozioni che vivi quando lavori con alunni con DSA?
Pensi che la nostra società stia organizzando buone risposte rispetto alla questione DSA?
Quali sono le cose che, ad oggi, ti pare non funzionino?
Conosci altre realtà dove si opera sul DSA, puoi parlarcene?
Ci puoi raccontare cosa pensano i tuoi colleghi riguardo al DSA? Come lo vivono?
Prova a metterti nei panni degli ragazzi che segui, come pensi che vivano il DSA? E come pensi che lo vivano i genitori?
Ripensando alle argomentazioni narrate dai relatori è possibile distinguere macro aree di contenuto.

Raccontare il DSA con sguardo ecologico
Parlando di ecologia non ci riferiamo a tutte quelle questioni che si riferiscono alla tutela ambientale, così come questa parola suggerirebbe considerando il significato secondo l' attuale senso comune.
L' ecologia di cui parliamo è quella di Bateson (che certamente poi ispirò i movimenti ambientalisti degli anni '70), descritta nella sua opera del 1972: “Verso un' ecologia della mente”. All' interno del libro l' autore descrive la sua visione cibernetica dell' uomo, condizionato da Wiener che nel '47 descrisse la cibernetica come scienza che studia i meccanismi di regolazione di un organismo in relazione al suo ambiente esterno.
Vedere l' uomo in chiave cibernetica ci porta a considerarlo non come entità univoca ed indipendente, ma come essere in relazione con l' ambiente. Quindi descrivere il DSA in chiave ecologica significa osservare l' impatto che la persona con DSA ha sul proprio ambiente di vita, o ambiente relazionale, e anche osservare come l' ambiente si modifica in relazione alla presenza di una persona con DSA.
Nessuna delle persone intervenute ha parlato di DSA nella sua accezione di disturbo: molti relatori hanno messo l' accento sul concetto di diversità, svalutando quelle culture che definiscono l' esperienza di una persona con DSA, come esperienza di una persona “minus habens”.
Ripensando alle argomentazioni dei tecnici intervenuti (Dr. Pea, Dr. De Bustis, Dr. Vecchi e Dr.ssa Marchesi) emerge come la stessa definizione di DSA sia caratterizzata dalla presenza di spigolature e riduzionismi che non tengono conto della complessità della persona: come se non ci fosse solo il disturbo neuropsicologico, ma molto di più.
Pea ha messo l' accento su come considerare la “D” nella definizione: può riferirsi alla parola “disturbo” o alla parola “diversità”. Per i ragazzi il DSA diventa un disturbo in relazione ad un ambiente di apprendimento che prevede un' unica maniera di apprendere basata solo sul guardare e ascoltare. In un ambiente di apprendimento dove si ricorra a modalità più legate al “fare”, all' esplorazione attiva, all' azione, il DSA non assume più i connotati di disturbo, ma di diversità integrata.
De Bustis invece ha messo l' accento sull' “effetto che fa” avere una diagnosi di DSA: in questo senso racconta delle variabili emotive e relazionali che caratterizzano il sistema di relazioni intorno all' alunno con diagnosi. Racconta così la storia di un vecchio compagno di classe dislessico. Vittorio era un bambino pluri-ripetente che, anche solo con la sua fisicità più matura, incuteva timore nei compagni di classe. Quando a Vittorio veniva chiesto di leggere, diventava goffo e insicuro, vittima dei sorrisini sarcastici dei compagni. Quando invece la maestra si assentava, Vittorio si vendicava, tiranneggiando sui compagni con piccole prevaricazioni e velate minacce.
Ritorna anche in questa storia l' importanza nel considerare non solo il “problema in sè”, ma del problema “in relazione con gli altri”; per occuparci di DSA diventa fondamentale occuparci sia degli equilibri relazionali nel gruppo dei pari, sia del supporto alla modalità didattica agita dalla scuola.
Anche l' intervento teatrale proposto dai ragazzi ha parlato di questo: se nella classe la questione è affrontata da docenti e compagni con delicatezza e comprensione, allora non esiste più il “disturbo”.

I docenti intervenuti hanno provato a descrivere proprio questi atteggiamenti di comprensione e delicatezza, ponendo soprattutto l' accento sul fatto che ormai la composizione delle classi è caratterizzata dalla presenza di grande eterogeneità. Ormai le nostre società non sono più monoculturali, ma multiculturali e per cultura non intendiamo solo aspetti legati alla provenienza geografica. A proliferare sono gli stili di vita, tutti legittimati da una società emancipata e postmoderna, dove tutto ha diritto di esistenza.
Quindi dal punto di vista di un docente và in crisi il modello didattico fondato sulla lezione frontale, monolitica, uguale per tutti a vantaggio di forme di inclusione delle diversità e quindi della proliferazione della proposta didattica.
La docente Gritti descrive il DSA utilizzando la metafora dei sistemi operativi dei personal computer. Finora ci siamo abituati a lavorare con sistemi “window”, ma adesso inizia ad essere decisivo riuscire a lavorare anche su piattaforme “mac”. Mac e Window arrivano antrambe alla soluzione di un problema, ma lo fanno utilizzando processi operativi interni diversi. Quindi il docente moderno deve essere in grado di comprendere sia il linguaggio e le procedure “window”, che quelle “mac”.
Sulla stessa linea è intervenuta anche la prof.ssa Assolari, descrivendo il DSA come una risorsa a più livelli: risorsa per il docente nel suo continuo processo di studio, formazione e aggiornamento. Risorsa per la classe perchè apre a modalità di apprendimento diverse (si pensi all' uso del PC).
Gli interventi delle altre docenti hanno invece messo in risalto quelle che potremmo definire come peculiarità umane che aiutano ad attivare gli atteggiamenti di comprensione.
In primis il concetto di ospitalità e accoglienza: il saper mettere un ospite a proprio agio, consentendogli di vivere l' ambiente che lo ospita (in questo caso la classe) in modo libero e spontaneo. Se un ragazzo preferisce ascoltare una lezione sdraiato sul pavimento, perchè non trovare margini per concederglielo?
A proposito di concessioni, le docenti pongono anche l' accento (sempre in chiave ecologica) allo sguardo con cui osservano le situazioni di DSA: comunicano di essersi concesse il lusso di entrare in relazione empatica con gli alunni. Osservare gli occhi auto-disistimanti dei genitori, osservare con compassione il continuo ricadere dell' alunno sullo stesso semplicissimo errore di grammatica. Per fare questo occorre lentezza, contemplazione, meditazione...
video docenti

DSA intervento lungo più livelli
Rispondendo al quesito riguardante le modalità operative con cui gli intervenuti si occupano di DSA a seconda del proprio ambito di esperienza, si è evidenziata una certa discordanza tra quello che si dovrebbe fare e quello che effettivamente si fa.
Un divario non motivato tanto dalla non conoscenza di buone prassi operative, ma da aspetti connessi al tempo. L' alunno con DSA necessita di maggior tempo per arrivare alla consapevolezza e all' interiorizzazione di un contenuto. In realtà potremmo dire che tutti gli alunni avrebbero bisogno di maggior tempo nell' esperienza dell' apprendimento.
Il problema della discordanza sembra nascere dal fatto che sebbene il processo di apprendimento necessiti di pensieri lenti, i contenitori dell' apprendimento (le scuole in primis) sono caratterizzate da azioni ed organizzazioni che richiedono pensieri veloci.
Pea e Gritti hanno più volte sottolineato l'importanza di un approcio multisensoriale nello specifico della lettura e più in generale nel problem solving. Con approccio multisensoriale si intende utilizzare non solo vista e udito, ma anche la corporeità, l'olfatto, l'immaginazione fantastica nell' elaborazione dei contenuti da interiorizzare.
In questo senso la professoressa Assolari ha ribadito l' importanza nell' avere il coraggio di fermarsi: come se la scuola dovesse trasmettere meno nozioni, ma maggiormente in profondità. Nell' organizzazione della lezione è importantee privilegiare prima lo svolgimento di un' esperienza, poi la co-costruzione dei contenuti e solo alla fine la rielaborazione tramite il libro.
Parlando di riabilitazione per il DSA è emersa la questione dell' uso del computer. Tutti i relatori constatavano l' utilità nell' utilizzo del mezzo informatico pur dovendo fare precisazioni sulle premesse con cui viene proposto. Infatti il computer deve essere vissuto come protesi che supporta i ragazzi nella mancanza di automatismi. E' importante non vedere il computer come mezzo totalitazzante, ma utilizzato laddove c'è veramente bisogno. Il computer diventa in questo senso un assistente al lavoro, nel controllo ad esempio degli errori ortografici, nell' utilizzo del copia-incolla, nella sintesi vocale ma non sostituisce l' alunno nel percorso di apprendimento.
La professoressa Rocco ha parlato poi di dispensazione in relazione al benessere relativo dell' alunno nel gruppo classe. Con questo ha voluto sottolineare che i Piani Didattici Personalizzati (Legge 170 2010) non devono essere generali e connessi solo alla diagnosi. Va tenuto in considerazione anche l' equilibrio delle relazioni in classe, in modo che lo strumento dispensativo (ad esempio un' interrogazione programmata) non venga né vissuto dai compagni come favoritismo, né dall' alunno stesso come carità.
Nella relazione docente allievo sono è poi emersa l' importanza di porre l' attenzione sui processi metacognitivi: chiedere all' alunno di spiegare come ha fatto, chiedergli di raccontare il proprio metodo in generale; oppure esplicitare il proprio metodo di studio come educatori e confrontarlo con quello degli studenti. Un approcio quindi maieutico che trasmetta sostegno psicologico e porti l' alunno a pensare che il mondo possa avere fiducia in lui.  

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Dott. Nicola Santopadre

Psicologo Psicoterapeuta 
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